Quarant’anni fa, il sisma che ci sconvolse la vita


Straordinario contributo del prof. Raffaele La Sala che ricorda per noi quel giorno: L’Irpinia si scoprì crocevia di infiltrazioni criminali, regolamento di conti e attentati: le ferite ancora evidenti

Forse quarant’anni cominciano a segnare la giusta distanza cronologica e psicologica per scrivere finalmente la storia di quel 23 novembre, purché a farlo non siamo noi, gli adolescenti e i giovani di allora che fummo testimoni e oggi reduci di quell’immane disastro e al più abbiamo il dovere della memoria.

E abbiamo ricordato da allora, prima ogni anno, in occasioni pubbliche e private, alle decennali e venticinquennali ricorrenze comandate e poi sempre con minore entusiasmo.

Eppure quell’evento ci segnò la vita, definì un prima e un poi, accelerò il distacco di chi vedeva cancellate le proprie certezze e ci fece sentinelle (più o meno consapevoli) di un’identità perduta. In quell’evento oggi si riflette il cammino di una generazione che poteva essere spazzata via quella sera, ad Atripalda, se il convento di San Pasquale non avesse miracolosamente retto all’urto tremendo e se padre Alfonso non ci avesse impedito di uscire mentre il campanile collassava sul portone d’ingresso. No, non possiamo essere noi a scriverne la storia, quelli scampati al disastro, per imperscrutabili congiunzioni astrali o rassicuranti protezioni celesti per la vigile e paterna intercessione di San Sabino nuosto.

E fu veramente un miracolo che le case, in quella dolce e luminosa domenica di novembre ‘ngapo la torre, sott’a rovana, ‘ngap’all’ortola, ‘ngopp’o palazzo, che si sostenevano l’una sull’altra, non si sbriciolassero sulla gente. E chissà se e quando, andando oltre la percezione individuale che si nutre di nostalgia e di memoria, qualcuno saprà dire su quell’evento parole di verità.

Quanto denaro sprecato mentre, dopo gli slanci di solidarietà, di calore, di accoglienza delle prime settimane, si indurivano i cuori e si riaffacciarono gli egoismi e le astuzie di sempre. E mentre l’Irpinia, che pareva ancora zavorrata nel suo tempo immobile di notabili e di cafoni (nonostante il ’68, i giovani, don Michele Grella e l’Avellino in serie A) si scopriva crocevia di appetiti colossali, retrovia di infiltrazioni criminali, regolamenti di conti e attentati. Dopo 40 anni, sono queste le ferite che ancora sanguinano, non più quelle al tessuto urbano, pure violato da ricostruzioni disinvolte o distratte, non le piccole e grandi speculazioni che segnarono da subito differenze e privilegi. Niente di nuovo, se nelle pieghe delle burocrazie italiche forse non sono ancora chiusi i conti del terremoto del 1930 e del 1962 e mentre gli intervalli temporali dei disastri si vanno velocemente consumando e qualcuno pure dovrà cominciare a pensare al terremoto prossimo venturo. Quarant’anni dopo i luoghi mostrano ancora qua e là i segni di un tessuto urbano compromesso, vistosamente presenti a via Belli, via Fiume, piazza Sparavigna, Piazza Umberto I, per non parlare dei restauri che troppo presto necessitano di nuovi restauri, la facciata della Chiesa di S. Ippolisto, il campanile della Madonna del Carmine, la dogana dei grani, svuotata di funzioni e ridotta a inerte prospetto scenico. Ma la verità, sulla quale forse non abbiamo riflettuto abbastanza fu la esasperante lentezza con cui si ritrovarono e si ricostituirono in nuovi contesti le comunità, spesso quelle più prossime a secolari tratti identitari. Oggi forse possiamo finalmente ammettere che la costruzione di enormi periferie fu un errore; che i quartieri immaginati come dignitose ed efficienti soluzioni abitative sarebbero stati abbandonati al proprio degrado di dormitori senza identità.

Ci furono beninteso tante pagine di generosità e di abnegazione (Biagio Venezia, volontario a Lioni, a scavare tra le macerie poche ore dopo il sisma; la Caritas di Senigallia e delle diocesi marchigiane, coordinate da un giovanissimo sacerdote, don Giancarlo Cicetti, le Misericordie toscane e il Battaglione degli Alpini ‘Orta’), tante intuizioni e tante speranze, la cura appassionata (e non sempre compresa) per la tutela del patrimonio storico ed artistico ed il recupero dell’archivio comunale (Vittorio Solimene, Galante Colucci, Sabino Tomasetti, la direttrice della Biblioteca Assunta Di Fiandra); le mense comuni e la solidarietà silenziosa, quella di padre Pasquale Caporale, di mons. Raffaele Aquino, degli scout e dell’azione cattolica, in prima linea a dare senso alla promiscuità dei campi di roulotte e di baracche: cose delle quali altri scriveranno la storia.

I ragazzi e i giovani di oggi faranno memoria di altri eventi catastrofici e di altre paure e basterà per i prossimi anni la pandemia scatenata da un virus globale. Racconteranno, come noi oggi il 23 novembre e i nostri genitori la fame e la guerra. Speriamo con migliore fortuna.

(filmato realizzato dalla Pro Loco di Atripalda nel trentennale del terremoto)



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