Da oggi è disponibile in tutte le librerie “Fuori tempo massimo”, il secondo libro del giornalista-scrittore atripaldese trapiantato a Roma
Giornalista pubblicista, scrittore poliedrico, collaboratore di testate nazionali e locali (solo per citarne alcune: Il fatto quotidiano.it, Stati generali), Stefano Iannaccone, 34 anni, coniuga l’amore per la narrativa al quinto potere, portando la sua esperienza professionale nelle storie dei suoi romanzi. Il suo esordio è stato con “Andrà tutto bene” (La bottega delle parole, 2014) spaccato moderno che descrive la vita di uno studente universitario alle prese con ansie e incertezze, ma anche speranze e aspettative. Marco, il protagonista, è l’emblema dell’insicurezza generazionale: dopo una delusione d’amore si trova a fare i conti con una nuova realtà, privo di stimoli e frustrato. La rinascita arriverà dopo una serie di disavventure e, alla fine, “andrà tutto bene” perché l’eroe della normalità troverà lo stimolo per rialzarsi e rimettersi in gioco.
Stefano, sei giunto alla tua seconda prova letteraria. Dopo il successo di “Andrà tutto bene”, è in uscita “Fuori tempo massimo”. Di cosa parla il tuo nuovo romanzo?
«Il romanzo è un’opera corale in cui vari personaggi raccontano le proprie vicende, vere e proprie microstorie nella macro storia, legate da un fil rouge, cioè il punto di vista del protagonista. La concatenazione di eventi esiste, eccome. Non credete alla favola di chi dice il contrario. Se c’è una cosa di cui Fabio è sicuro, è questa. Soprattutto quando, all’improvviso, ogni apparente certezza, su cui era sicuro di poter contare, crolla irrimediabilmente, lasciando solo l’intervallo di una vita raccontato alla nipote Lara, l’unica che in qualche modo lo salva dalla terra di mezzo in cui si ritrova. Fabio è il tramite attraverso cui si sviluppano i racconti di altri protagonisti, in una linea continua che collega il racconto principale alle storie individuali. Alla base dell’intreccio narrativo, vi è un concetto chiave: il potere. Non parliamo necessariamente di potere politico ma di tutto ciò che ruota attorno a questo concetto: dalla ricerca del successo, alla carriera, fino ad arrivare agli effetti negativi che può portare la smania di autorealizzazione».
Il potere, dunque, è la chiave di lettura dell’intera opera?
«Il fulcro del romanzo è già esplicitato dall’episodio iniziale: durante una rapina, aggressore e vittima entrano in contatto, rivelando le dinamiche che intercorrono tra chi ha il potere e chi, invece, ne subisce le conseguenze. Ogni personaggio vive alla ricerca del potere e, spinto dall’ambizione, si ritroverà a fare i conti con le tribolazioni che questa ricerca spasmodica implica, finendo per perdere la bussola e toccare l’effimero».
C’è una continuità tematica con la storia precedente?
«Rispetto al primo romanzo non c’è un collegamento vero e proprio. Mentre in “Andrà tutto bene” il protagonista è soltanto Marco, studente alle prese con la vita da universitario, nel secondo trovano spazio storie e personalità differenti. Anche la critica sociale e l’attenzione alla contemporaneità, largamente presente nel libro iniziale, vengono soltanto accennate in “Fuori tempo massimo”. L’ultimo romanzo è frutto della fantasia e del mio estro, soltanto un personaggio è stato ispirato alla vita reale, a mia nipote».
Ti senti più uno scrittore o più giornalista?
«È una domanda difficile da soddisfare. Si tratta di due tipi di scrittura completamente diversi, nel giornalismo bisogna essere obiettivi, o almeno cercare di esserlo il più possibile, mentre con la scrittura hai la possibilità di comunicare te stesso e il tuo essere. In questo momento mi sento più scrittore, infatti, sto cercando di non far trapelare la mia anima letteraria negli articoli giornalistici, perché il rischio è proprio quello di lasciarsi andare a considerazioni personali».
Tu sei originario di Atripalda. Quali sono state le difficoltà di vivere in una piccola città? Come sei riuscito a coniugare origini e spirito di affermazione?
«Il percorso è stato arduo ed è ancora in salita. Nonostante collabori per diverse testate nazionali (Il fatto quotidiano.it, Stati generali), non mi sento arrivato. La vita da giornalista free lance è difficile, ti ritrovi con molte collaborazioni in alcuni periodi e con poco lavoro in altri. La strada è sempre impervia, a meno che non si abbiano delle conoscenze che aprono svariate porte. Il giornalismo attuale si fonda molto sui contatti, è un mestiere di relazioni, per cui già essere nato in una città come Roma ti permette di avere maggiori possibilità di riuscita. Nonostante ciò, non vivo la mia provenienza come un handicap, sono profondamente legato all’Irpina e ogni volta che ne ho la possibilità ricordo la mia terra».
Stefano presenterà la sua ultima fatica letteraria il 20 dicembre ad Atripalda: «E’ una data simbolica perché in corrispondenza delle festività natalizie. Mi fa piacere presentare il libro ad amici e parenti, non per smania di protagonista ma per il gusto della condivisione».