“Quello che veramente ami non ti sarà strappato”… A settant’anni dal Trattato di pace firmato a Parigi
La lotta di resistenza partigiana tanto celebrata (in Italia, ma dagli apporti militari sulla dinamica del conflitto poco rilevanti), la resistenza passiva delle decine di migliaia di Internati militari italiani in Germania (vittime dello sbandamento politico, militare ed istituzionale dell’8 settembre) e la costituzione dell’esercito del Regno del Sud (con uniformi ed equipaggiamento britannico) non furono argomenti che la diplomazia italiana seppe mettere adeguatamente sul piatto della bilancia. Esemplare per arrendevolezza, rassegnazione e tono auto-accusatorio, l’incipit dell’orazione tenuta dal Presidente del consiglio Alcide De Gasperi alla Conferenza di pace: “Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”.
Poco risalto ebbero pure le violenze, le deportazioni e le uccisioni di cui furono vittima gli italiani della Venezia Giulia, del Carnaro e della Dalmazia (almeno 10.00 vittime), i rappresentanti ciellenisti provenienti da queste martoriate terre non poterono far valere le proprie ragioni e le vecchie linee confinarie maggiormente generose nei confronti di Belgrado ma non umilianti per Roma, già proposte durante la Conferenza di pace del 1919, non meritarono di tornare in auge. L’innovativo principio di autodeterminazione dei popoli cedette il passo all’imperituro motto del “vae victis”.
Perché di sconfitta per l’Italia si trattò, nella sua interezza: fascisti ed antifascisti, monarchici e repubblicani, giuliano-dalmati e piemontesi o calabresi, fu tutta la penisola a subire pesantissime condizioni di pace, nonostante la vulgata si compiaccia della vittoria nella Guerra di liberazione. Truppe inglesi, americane, francesi e coloniali al seguito (con strascico di “marocchinate”) vinsero la loro guerra, inseguirono le truppe tedesche in ritirata e se ne infischiarono della mattanza con la quale culminò la guerra civile italiana e della seconda ondata di stragi al confine italo-jugoslavo. L’accordo di Belgrado del 9 giugno 1945 suddivise la regione contesa in Zona B sotto amministrazione militare dello Stato titoista e Zona A sotto amministrazione militare angloamericana poiché in quest’ultima ricadevano Trieste, Gorizia e la vecchia base navale di Pola, vale a dire punti strategici attraverso cui far passare rifornimenti per le truppe di presidio in Austria e Germania meridionale, deputate a presiedere alla denazificazione e a vigilare sull’alleato sovietico che cominciava a diventare scomodo.
Contemporaneamente alla firma dell’oneroso Trattato di pace, a Pola, dove era già cominciato il ciclopico esodo che portò 28.000 abitanti su 30.000 ad abbandonare la città dell’Arena, Maria Pasquinelli uccise a pistolettate il generale britannico Robin de Winton, comandante della piazza polesana. Questa maestrina aveva assistito alle violenze titine contro la comunità italiana di Spalato nel settembre 1943, identificando poi le salme dei colleghi esumati dalla fossa comune in cui finirono più di 100 vittime; raccolse testimonianze disperate nell’entroterra istriano in merito ai massacri delle foibe successivi all’8 settembre; fu partecipe delle trattative per creare un fronte unico fra antifascisti “bianchi”, reparti della Divisione Decima di Junio Valerio Borghese ed esercito del Sud che scongiurasse nuovi massacri per mano titina a guerra finita; si prodigò nel Comitato per l’esodo da Pola, facendosi, infine, carico della rabbia, della delusione e dello sconforto di chi per mantenere la propria identità doveva abbandonare la propria città strappata all’Italia.
Sullo sfondo dell’esodo di 350.000 istriani, fiumani e dalmati quei colpi di pistola il 10 febbraio 1947 conclusero disperatamente un progetto di italianità che era iniziato appassionatamente sul capestro di Guglielmo Oberdan il 20 dicembre 1882.
(testo tratto dal sito www.10febbraio.it pubblicato su richiesta dell’assessore Antonio Prezioso)