“La pazzia è come il paradiso. Quando arrivi al punto in cui non te ne frega più niente di quello che gli altri possono dire… sei vicino al cielo.” (Jimi Hendrix)
Nessuno in giro a quell’ora, era estate, di quelle che non si ricordavano mai così calde, la gente riposava dietro le persiane chiuse, o forse spiava, di certo in strada erano lei, lui e il cane.
Gli animali hanno esigenze e il loro giovane amico a quattro zampe non ne voleva sapere di stare stipato in casa, la sua voglia di sgambettare non conosceva sosta e seppur a malincuore bisognava procedere alla quotidiana passeggiata su, verso la collina, allontanandosi dal cemento e dal traffico che aumentavano notevolmente il calore, lassù, in mezzo al verde il caldo diveniva più sopportabile, eppure le salite erano ripide, ma c’era sempre la breve sosta alla fonte d’ acqua gelata: “l’acqua chiara”.
Al ritorno per riprendere il cammino verso il paese, abbandonata la campagna si ritrovavano sulla strada provinciale alberata, perché percorrendo quella bretella arrivavano infine a costeggiare il fiume, ultimo tratto prima di rivedere la loro casa. Lungo quel tragitto c’erano tante piccole abitazioni, qualcuno le chiamerebbe villette, alcune erano antiche, qualcuna era più lussuosa, e certe sembravano abbandonate.
Aveva intrecciato i capelli, lo faceva spesso, sopratutto in una giornata così torrida, senza neanche un alito di vento; la treccia lunga e bionda cadeva sulle spalle.
Mentre camminavano preceduti dal cane tenuto al guinzaglio, aveva notato già da lontano una vecchia donna che sostava all’esterno di un’abitazione fatiscente in quello che sembrava un giardino abbandonato. Prima di giungere al fianco dell’ingresso due elementi avevano catturato la sua attenzione: la puzza nauseabonda che disturbava fortemente l’olfatto e un lucchetto con catena che chiudeva il cancello.
Lei era esile come un giunco, con i capelli scomposti e bianchi come la neve, gli occhi chiarissimi, le mani aggrappate al cancello magre e ossute, indossava un vestitino che sembrava un camice, abbottonato davanti, borbottava parole incomprensibili, la sua sembrava la condizione di una persona detenuta, a vederla suscitava un chiaro sentimento di tenerezza.
Le rivolse la parola: “Buonasera!”, lei non rispose, sembrava non avere né visto, né sentito, oltrepassando il cancello però sentì chiaramente le sue parole: “Che bella treccia! Anche io, tanto tempo fa, portavo la treccia”.
Subito rianimata dalla sua improvvisa lucidità si voltò e fece qualche passo indietro: “Salve, qual è il suo nome?”. Lei continuava a restare attenta mentre le rispondeva: “Beatrice”. Non le sembrava vero poter iniziare un dialogo fino allora insperato, tante erano le domande che affollavano la sua mente, sopratutto riguardavano il suo stato di evidente abbandono, e così procedeva a chiederle: “Cara Beatrice, vive da sola? Ha bisogno di aiuto? Perchè è chiusa all’interno da un lucchetto?”.
Non aveva mai saputo attendere, e poi si illudeva sempre che le situazioni potessero essere diverse da ciò che sembravano alla prima occhiata.
Si sbagliava. Beatrice era già persa nel suo mondo, non ricordava più la treccia e neanche il suo nome, la lucidità momentanea abbandonandola aveva lasciato il posto al nulla, alla solitudine, alla mancanza di cura, al soliloquio.
A niente servirono le brevi ricerche per comprendere chi si occupasse di Beatrice, chiedendo in giro a qualche vicino, l’unica risposta significativa era stata pronunciata come una sentenza: “Lasciate perdere, ci sono i parenti che vengono ogni tanto e pure i servizi sociali, tanto quella non capisce niente, per lei non cambia nulla se vi fermate o andate via”.
Proseguì il cammino tristemente sconfitta, i suoi compagni la stavano aspettando fermi su un muretto a un po’ di distanza e intanto parlava da sola, probabilmente anche il suo doveva essere uno stato “d’infermità mentale”, eppure l’aveva conosciuta!
Si chiamava Beatrice ed era bella con la sua lunga treccia bionda.
Cinzia Spiniello