Nota del titolare della Diocesi di Avellino: «Ringrazio quanti hanno espresso vicinanza e solidarietà: la porta dell’episcopio resta aperta a tutti, anche al responsabile del gesto»
Il Vescovo di Avellino, mons Arturo Aiello, ha inviato la seguente riflessione dopo quanto è accaduto ieri pomeriggio.
“A bocce ferme facciamo qualche considerazione sul piccolo incidente accaduto ieri davanti al portone dell’episcopio che tanta eco ha avuto in città e oltre, prestandosi a molteplici interpretazioni per lo più fantasiose. Prima di entrare in merito ringrazio quanti, come istituzioni e come singoli cittadini e fedeli, hanno fatto giungere vicinanza e solidarietà, e manifesto la mia vicinanza ad Antonio D’Agostino di Valle che è in ospedale con ustioni serie in seguito al tentativo, come semplice passante, di allontanare il pacco esplosivo dal portone, al vigile urbano Pironti Domenico ed ovviamente a Carlo Mele, direttore della Caritas Diocesana.
Il gesto dell’incauto artificiere è isolato, non rientra in alcuna trama eversiva e va letto come “urlo” di un popolo di “invisibili” che abita la città e i paesi della nostra provincia elemosinando pane, lavoro e, forse, attenzione come i gatti randagi. Sono invisibili perché non considerati, esclusi o autoemarginati, vaganti come ombre e cani sciolti, senza fissa dimora, spesso sul limite sempre incerto della follia o di un disturbato senso della realtà. Chi fa caso a questa folle di ombre vaganti? Devo dare atto alle parrocchie di svolgere un ruolo di accoglienza, di ascolto, di integrazione, di “asilo politico”. Nel Medio Evo le chiese e i conventi, per un riconosciuto diritto di extraterritorialità, erano rifugio di perseguitati politici, a volte di delinquenti, di ricercati o semplicemente di uomini e donne che intendevano uscire dal consesso civile nascondendo volti e storie sotto sai e soggoli. Oggi avviene lo stesso per quanti, a vario modo emarginati, cercano un luogo umano e lo trovano, purtroppo, solo nelle chiese che fanno incetta di folli, di tipi strani, di uomini e donne che vivono alla giornata di accattonaggio o di carità. È l’esercito “dei vinti” che facilmente dalla marginalità possono passare alla microcriminalità. Non vestono giacca e cravatta, non provengono da profumerie e centri estetici, mancano delle norme di buona creanza e a volte, o spesso, non sanno neppure dire grazie a chi presta loro attenzione ed aiuto. Può anche accadere che siano esigenti, arroganti, reclamanti diritti come nei confronti di un datore di lavoro che non corrisponda il dovuto.
L’esercito degli invisibili non conosce le norme elementari di buona creanza e si aggrappa ai servizi caritativi con la violenza di un naufrago alla scialuppa di salvataggio. Oggi svolgere un qualsiasi servizio caritativo è difficile, non gratificante e, a tratti, rischioso. Intendo con questa nota ringraziare i tanti volontari che agli sportelli di ascolto, nei centri zonali o parrocchiali della caritas, nelle tante “opere segno” della superaccessoriata Caritas diocesana spendono tempo investendo attenzione ed amore e mettendo a repentaglio la loro incolumità. La disperazione non coniuga il congiuntivo e passa su tante forme e norme che per noi sono basilari, ma che non si accompagnano all’istinto di sopravvivenza. È questo il motivo per cui gli enti pubblici volentieri danno in appalto alle Caritas e ad altre agenzie servizi di ascolto, di mappatura, di aiuto, di arginazione, di sollievo che dovrebbero svolgere in prima persona. È emblematico l’incidente di ieri, perché il nostro artificiere è stato in carico per molto tempo alla Parrocchia di Forino, poi, passato alla Caritas Diocesana, ha usufruito della Mensa e di altri servizi di prima necessità che, dal nostro versante sono aiuti gratuiti, ma dal suo diventano diritti da contendere con altri poveri con cui si entra in competizione, a volte in guerra. Una guerra tra poveri.
In un momento di disperazione non si morde qualsiasi mano, ma quella che tenta di offrirti un pane, non si usa violenza con un estraneo, ma con una persona domestica, non si brucia un qualsiasi portone, ma quello che tante volte si è aperto per accoglierti. Qui l’eroe non sono io, ma Carlo Mele e tanti che con lui hanno familiarità e si accompagnano con il popolo degli invisibili che a volte, per uscire dall’ombra, possono anche bruciare il portone dell’episcopio. Mi pare di sentire che lo stesso portone abbia da ieri assunto un plus di valore perché dalle fiamme e dal fumo che ne è seguito è stato ulteriormente riconosciuto, con un marchio DOC, come “la porta di casa” da prendere a calci in un momento di sconforto. Non voglio indorare la pillola o addolcire l’accaduto: c’è stato un gesto di violenza a persone e cose, ma, a volte, quando non si conoscano grammatiche diverse o siano negati diritti e patenti di umanità, può anche essere letto come un urlo di aiuto, un SOS prima di affondare definitivamente. E a te, artificiere improvvisato, a nome della Chiesa che indegnamente rappresento, rivolgo il mio pensiero, non ti tolgo il passaporto per la Mensa o il Dormitorio, assicuro che non sei entrato nella lista nera (esiste solo per i benpensanti!). Augurandoti che i sacerdoti della legalità ti riconoscano le attenuanti della disperazione o di corti circuiti che tolgono ai gesti la piena responsabilità, ti assicuro che troverai ancora aperto il portone dove c’è un piatto caldo e l’accoglienza che sempre, come diritto e dovere, dobbiamo riconoscerci come esseri umani”.