«In nostro dialetto gode di ottima salute»


E’ la conclusione a cui è giunta la dottoressa Federica Galluccio nella sua tesi di laurea in Lingue Moderne dopo aver “intervistato” un campione di 278 cittadini atripaldesi

“Il dialetto ad Atripalda” è il titolo della tesi che Federica Galluccio, 22 anni, studentessa atripaldese, ha discusso pochi giorni fa per conseguire la Laurea in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Salerno con la votazione di 110 e lode. 

Lo scopo della tesi era quello di “indagare” alcuni aspetti relativi all’utilizzo del dialetto in un importante centro irpino come Atripalda ed, in particolare, analizzare il profilo e l’opinione di chi lo utilizza.

Ad Atripalda, oltre alla lingua italiana, si parla diffusamente anche il cosiddetto “dialetto irpino”, uno dei cinque tipi di dialetti campani, anche se, a differenza delle zone interne, nella nostra città ha subìto l’influsso dei centri maggiori come Avellino e Napoli per ragioni legate alla sua vocazione prevalentemente commerciale.

I lavoro svolto dalla dottoressa Galluccio è articolato e interessante, svolto attraverso un questionario online sociolinguistico (la pandemia ne sconsigliava la somministrazione diretta, ndr.) a 278 volontari residenti, di età compresa fra i 16 e gli 85 anni.

“Dalla ricerca è emerso che ad Atripalda il dialetto è capito e parlato dalla maggior parte delle persone (94,6% – 266), indipendentemente dalla loro età o grado di istruzione – scrive la dottoressa Galluccio nelle conclusioni -. Significativi sono i dati sulla percezione del dialetto da parte del parlante, solo il 10,1 % (28) degli intervistati ha un’opinione negativa di chi parla abitualmente il dialetto: questo ci fa capire come la considerazione riguardo ai dialetti sia cambiata negli ultimi tempi, e, per la maggior parte delle persone, parlare dialetto non sia un sintomo di bassa cultura, ma semplicemente utilizzare un codice linguistico diverso, che appartiene ad un determinato luogo da molto più tempo della lingua nazionale. Ha suscitato grande dibattito anche il quesito sull’utilità dell’insegnamento del dialetto a scuola, che ha praticamente diviso in due schieramenti gli intervistati. Da un lato chi ritiene che il dialetto sia uno strumento di trasmissione orale da utilizzare esclusivamente in casa e con amici, per cui non avrebbe senso insegnarlo a scuola, dall’altro chi, conscio del fatto che i giovani tendono sempre più ad abbandonare alcune tipiche forme espressive del dialetto, sarebbero favorevoli a introdurlo tra le materie scolastiche, per far conoscere alle nuove generazioni, tramite il suo insegnamento, la cultura e il passato del luogo in cui vivono. Di grande interesse sono i dati riguardanti il campione più giovane tra gli intervistati: quasi tutti non hanno un’opinione negativa del dialetto, lo capiscono e lo parlano abitualmente in contesti informali – tra le mura domestiche, con amici e familiari -, ma utilizzano l’italiano per la comunicazione in situazioni più formali e con chi non conoscono. Nonostante ciò, nella quarta parte del questionario riguardante la resa in italiano di termini ed espressioni dialettali, solo alcune sono state riconosciute e definite correttamente, quelle più arcaiche come fazzatora e tieni l’uosimo! sono conosciute da un numero ridotto di giovani e per questo, tra qualche generazione rischiano di cadere in disuso: la prima perché è relativa ad un’attività, quella di fare il pane in casa, oggi non più praticata, la seconda perché molto antica, legata al mondo animale, e utilizzata pochissimo nel linguaggio comune. Siamo comunque lontani dalla cosiddetta ‘morte dei dialetti’ ipotizzata da alcuni: il dialetto è parlato e utilizzato quotidianamente nella vita privata e affettiva da tantissimi cittadini italiani di ogni età e status sociale e ciò è confermato dai dati raccolti in una piccola realtà come Atripalda. I dati raccolti hanno dimostrato che – si legge ancora – ad Atripalda il dialetto gode di buona salute, oltre che di un’ottima reputazione presso i parlanti, che lo utilizzano in ogni ambito della vita quotidiana come strumento di comunicazione riservato ai momenti più intimi, con familiari e amici che possano comprenderlo, e preferiscono l’italiano nelle situazioni più formali, in una relazione di diglossia (compresenza, ndr.). Ad Atripalda, come del resto nella maggior parte d’Italia, si usa sia il dialetto che l’italiano, nella maggior parte dei casi alternandoli nel discorso. Il dialetto sopravvive da secoli e nonostante sia stato spesso oggetto di stereotipi negativi, non è stato mai abbandonato e continua ad essere vitale. Come ogni prodotto umano, anche il dialetto subisce cambiamenti profondi nel corso del tempo, che possono portare alcuni termini a scomparire, ma questo non significa che sia destinato all’estinzione – conclude la tesi -, ma che si adegui e si rinnovi continuamente proprio come l’uomo”.

Complimenti, dunque, a Federica e felicitazioni a mamma Nada e papà Mauro, con la speranza che questa tesi possa essere di stimolo ad altri laureandi per un approfondimento delle tradizioni atripaldesi che vanno sbiadendo.



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