Pubblichiamo integralmente il racconto “Esco fuori, ma non evado” con il quale l’autore ha ricevuto il premio “Anna Maria Ortese”
Esco fuori, ma non evado
«Le nostre prigioni costituiscono sempre un tema attuale»
queste le parole che fanno da commento all’ultimo post di uno dei miei blogger preferiti, un ragazzo interessante, pieno di vita e riflessioni da offrire. Durante lo scambio di battute virtuale che abbiamo avuto, mi sono accorto di quanto la vita nelle carceri abbia influenzato indelebilmente la mia personalità. Ho avuto l’occasione, non proprio piacevole a dire il vero, di poter operare in questa realtà così difficile (tranquilli, non come detenuto!) e nel bene e nel male, grazie ad essa, sento di essermi avviato a quella professione che esercito tutt’ora con grande passione ed entusiasmo, quella di assistente sociale. Preso dall’entusiasmo del momento, adesso desidero condividere questa esperienza della mia gioventù con tutti voi.
il vostro Sandokan
Intorno al 1991 prestavo servizio come volontario nella mia città, Palermo, facendo doposcuola ai ragazzini “difficili”, un po’ perché in loro vedevo me stesso qualche anno prima e un po’ per sentirmi utile in un periodo della vita dove faticavo a trovare la mia strada. Non avendo la minima intenzione di svolgere il Servizio di Militare, nella vana speranza di restare nella mia città, decisi di fare richiesta per il Servizio Civile. Purtroppo, ahimè, non potendo beneficiare di alcuna raccomandazione, fui spedito a Caltanissetta presso un carcere minorile. Mi prese un colpo! Ero da poco stato mollato dall’amore della mia vita e sarei dovuto rimanere per un anno lontano dai miei amici storici, quelli con i quali avevo condiviso tutta la mia adolescenza passata cazzeggiando tra scuola, bar e discoteca. Ero solo, ma decisi di affrontare la cosa. Del resto non è che avessi molta scelta!
Così arrivai a Caltanissetta. Ricordo il primo giorno come se fosse ieri: il direttore mi venne incontro amichevolmente e, concedendomi una energica stretta di mano, mi rassicurò circa le condizioni di assoluta sicurezza nelle quali avremmo operato.
«Voi, giovani volontari, non avrete mai da soli contatti diretti con i detenuti», mi disse. Inutile dilungarmi sull’inconsistenza di certe cerimonie che portano in dote l’illusione delle prime impressioni: ben presto quelle parole si rivelarono per quello che erano, una serie di panzane colossali. Coi detenuti ci avrei avuto a che fare, eccome! Ad ogni modo, nella sua ipocrisia accuratamente rivestita d’un garbo d’altri tempi, al pari di un personaggio che avrebbe ben figurato in romanzo di Sciascia, il direttore mi disse che avrei potuto lavorare in ufficio o, in alternativa, a contatto coi detenuti. Lo disse rimarcando ancora una volta l’assoluta necessità di adempire al nostro compito sotto la supervisione delle guardie carcerarie.
E in quel momento avevo tutt’altro nella testa: il mio amore spezzato mi crivellava il cervello; ero nervoso per via delle sigarette che avevo smesso di fumare; i miei vent’anni bruciavano come la forza di mille disattese e sentivo che in quel momento nulla, ma veramente nulla, aveva un significato.
Scelsi i detenuti, un po’ per sentirmi importante e poter dire di prestare servizio in un luogo pericoloso, un po’ per vivere qualcosa di forte, che desse una scossa alla mia esistenza. Tuttavia le cose stavano in un altro modo: non mi andava di aiutare proprio nessuno, anzi, a dirla tutta, io quella gente la odiavo! Tant’è che presi a mostrare il mio disprezzo per gli altri, per quello che ero e ciò che stavo vivendo. Mi ritrovai ad essere una sorta di bulletto, sia con i detenuti che con i miei compagni. Avevo bisogno di sentirmi importante, darmi delle arie, volevo essere temuto e nessuno avrebbe mai dovuto mettermi i piedi in testa: tutti dovevano capire che con me non c’era modo di scherzare.
Ci assegnarono una camera, nient’altro che una cella inutilizzata: uno dei ragazzi poggiò le sue cose su uno dei quattro letti. Non so che mi abbia preso. In fondo un letto valeva l’altro, ma decisi che quello appena occupato doveva essere il mio. Così presi la sacca con la sua roba e la scaraventai a terra dicendogli di non avere alcuna fretta, che quel posto lo avevo visto per primo e spettava a me. A un ragazzo di Genova, invece, gliene ho combinate così tante che potrei aprire un blog a parte solo per riportarvi le cronache dei miei accanimenti contro di lui. Gli ho fatto davvero sputare sangue a furia di nonnismi vari e, se ci penso oggi, me ne vergogno profondamente. Ero veramente uno stronzo. Mi prendevo il lusso di fare lo spavaldo persino con le guardie: facevo il cretino con la donna in divisa e mi prendevo certe confidenze soltanto perché il gentil sesso doveva essere terreno fertile per le conquiste di un ragazzotto piacente, che doveva dimostrare al mondo di avere gli attributi. Il resto della ciurma veniva inutilmente messa in subbuglio dalle mie stupide trovate. Spesso nascondevo nei miei vestiti le posate rubate alla mensa facendo impazzire i metal detector! A proposito della mensa, non avete idea di che postaccio fosse: specialità della casa insalata con insetti, una vera leccornia!
Insomma, eccomi là, giovane e rabbioso, intrappolato in una prigione esistenziale che mi incattiviva sempre più. Odiavo tutto di quel luogo, dal direttore ai detenuti, e l’unica cosa che desideravo fare era prendermi gioco di loro, dimostrargli quanto fossero inutili e patetici. Intimamente vivevo nella convinzione di avere a che fare con degli scarti, la feccia della società, ritenendo che quella istituzionalizzata fosse peggio di quella illegale.
La situazione degenerò il giorno in cui uno dei detenuti evase. Lo vidi scavalcare il muro di cinta davanti ai miei occhi tra l’indifferenza generale. Tutti avevano fatto finta di nulla lasciando che se la svignasse. Mi sentivo come se qualcuno mi avesse fregato, pestato l’orgoglio: io l’avevo visto e me l’aveva fatta proprio davanti agli occhi. Inaccettabile, non poteva essere successo a me. Avevo fatto la figura del coglione! Mi sentii pervadere da una rabbia cieca ed ebbi una reazione spropositata nel dare l’allarme. Quel branco di imbecilli avrebbe dovuto riacciuffarlo, picchiarlo di santa ragione e sbatterlo dentro. Nella foga del momento cominciai a insultare chiunque mi capitasse sotto tiro e mi inimicai tutti, guardie e detenuti. Mi ero messo in una posizione scomoda, anzi scomodissima.
Da quel giorno tutto si era fatto più ostico e recuperare non fu facile. Sentivo di aver ragione, ma avevo tutto il mondo contro e le sole persone di cui mi importasse qualcosa e sulle quali potessi contare erano tutte a Palermo, lontane da me. Cominciai ad isolarmi, a chiudermi in me stesso, credendo che la solitudine mi avrebbe protetto fino alla fine del Servizio Civile; al contrario, più mi isolavo e più mi rendevo vulnerabile. Sentendomi schiacciare da quella cortina di silenzio forzata, decisi di confessarmi. Avevo bisogno di scacciare i fantasmi del mio passato che mi stavano divorando.
Il prete mi fu di grande conforto grazie alla sua estrema umanità. Esercitando la sua vocazione con serietà e dedizione, al suo cospetto mi sentivo come un libro aperto: ogni suo gesto era in odore di onestà e semplicità, lasciavo che quegli occhi franchi mi sfogliassero affinché interpretassero la palude dei miei sentimenti. E pensare che non avevo avuto troppa simpatia per i curati e le loro prediche fino ad allora, ma quelle parole autorevoli, sagge ed esperte sapevano come scavare nel mio animo. Le nubi oscure cominciano a diradarsi e ritrovai la forza per riprendere in mano la mia vita.
A poco a poco iniziai a esplorare chi mi stava attorno e rimasi piuttosto colpito da un ragazzo dai capelli lunghi, di qualche anno più grande di me. Faceva l’assistente sociale negli uffici della struttura carceraria. Svolgeva la mansione che avevo scartato qualche mese prima. Di cosa si occupasse esattamente quel ragazzo non ci capivo un granché; tuttavia, ammirando il suo slancio vitale e quella serenità che traspariva dal suo animo, decisi di seguirlo. Pian piano mi appassionai al suo lavoro e nel giro di poco tempo mi iscrissi al test di ammissione della scuola per assistenti sociali, sempre presso Caltanissetta.
Finalmente il mio futuro prendeva forma, tracciata la via a me non restava altro che rimboccarmi le maniche. Per inseguire la mia nuova vocazione sarei scappato anche più volte dal carcere altrimenti non avrei potuto frequentare il corso. Sapevo di compiere l’ennesima marachella, ma avevo la coscienza pulita: non la consideravo un’evasione, piuttosto un’uscita necessaria che poi mi sarebbe tornata utile in futuro. E così fu.
La situazione era decisamente migliorata: cominciai a conoscere meglio i detenuti anche dal punto di vista umano; imparai a penetrarne gli animi ed essere più rispettoso delle loro condizioni, malgrado le atrocità che alcuni di loro avevano commesso. Quelli non erano detenuti qualsiasi, ma la crème de la crème della malavita siciliana, persone con le quali avrei dovuto comunque costruire un rapporto. Ormai conoscevo le gerarchie e gli schemi di comando in cella: in caso di tensioni sapevo quando dovevo intervenire per dividerli e quando dovevo lasciare che si massacrassero tra di loro. E guai a prestare soccorso se qualcuno si faceva male, bisognava agire con prudenza poiché molti di loro erano stragisti e figli di boss che presto o tardi sarebbero diventati collaboratori di giustizia.
Eppure in alcuni di loro, da qualche parte si annidava un cuore, lo compresi quando per breve tempo ho ricoperto il ruolo di insegnante presso la struttura. Ricordo che un giorno ho assegnato un tema alla classe, ma nessuno aveva voluto sviluppare quella traccia. Terminata la lezione, dopo aver atteso che tutti i detenuti avessero lasciato l’aula, su uno dei banchi trovai un foglio spiegazzato. Vi erano scritte alcune righe dello svolgimento: qualcuno ci aveva provato e per me fu un momento importante. Avevo compreso quanto peso avesse l’umiltà, il chiedere rispetto, e la speranza di poter confidare in un futuro migliore. Sì, sarei diventato assistente sociale, era solo questione di tempo. La mia esperienza coi detenuti è andata avanti fino all’estate del 1992, poi, terminato il Servizio Civile, ritornai a Palermo per ricominciare da tre, parafrasando Troisi. Ad attendermi c’era la mia famiglia, il mio migliore amico e altri due anni di corso da terminare. Fu un anno intensissimo e di enormi cambiamenti, non solo per ciò che vi ho appena raccontato.
Un giorno mi prese il desiderio di rivedere la mia ex. Mi recai sotto casa sua, citofonai per invitarla a prendere qualcosa. La nostra storia scottava ancora e, nonostante le mie insistenze, decise di non vedermi. Fu irremovibile e ci rimasi un po’ male. Sulla strada del ritorno non riuscivo a capacitarmi di quella reazione. Perché tanto astio? Sentivo più che mai il bisogno di parlarle, di doverle delle spiegazioni, anche se lei non voleva. Sulla strada trovai una cabina telefonica a gettoni. Non avrebbe osato negarmi anche una telefonata, pensai. Mi ritrovavo nei pressi dello stadio, verso l’imbocco autostradale. Era il 23 Maggio. Troppe sirene. Non sentivo un cazzo. Fu lei a darmi la triste notizia, aveva la Tv accesa in casa e l’eco della diretta contornava le sue parole. Cadde l’ultimo gettone e, dentro me, il silenzio. Improvvisamente anche il suono delle sirene si chetò. Era la fine e l’inizio di tutto. Io ero cambiato. Palermo sarebbe cambiata e nulla sarebbe stato come prima da quel giorno.