Le ferite di quella terribile sera di 36 anni fa sono ancora aperte. Le paure e le angosce nei versi di Angelo Curcio
Trentasei anni fa il terremoto d’Irpinia (dapprima innominabile e ‘rimosso’ nelle terrificanti sequenze di questi mesi, e poi finalmente ‘ricordato’ con i suoi morti e le sue paure) squassava le fragilità antiche della nostra Città, ne sbriciolava il cuore antico, ne indeboliva e turbava le secolari certezze. I segni di quella terribile sera sono ancora nelle ferite del tessuto urbano e si pagano oggi con gli effetti delle scelte più o meno prevedibili di allora. Nella lenta ed talvolta incerta ricostruzione di case e di cuori. Le ferite non sono ancora del tutto rimarginate, le cicatrici chiuse, ma tuttora vive nelle coscienze di chi attraversò quella catastrofe hanno il senso oggi del presente e del futuro dell’Appennino umbro-marchigiano.
Angelo Curcio che aveva appena 14 anni, quel 23 novembre del 1980, tenne nel cuore le paure e le angosce di quella tragedia e nel 2010 (ed. Il Papavero), dall’altrove nel quale aveva realizzato la sua vita, ne fece densa e sofferta materia poetica.
“[…] Restiamo qui stanotte
con le voci fioche per non disturbare
e i vestimenti lerci,
raccogliamoci come intorno ad un fuoco amico,
stasera siamo cani alla catena stretta
e martiri in attesa di più definito supplizio;
ora nella notte più nulla trema se non la nostra pelle,
per me come per chi sospira la pena poco lontano,
sotto di te e le stelle asettiche restiamo,
a casa tornare non possiamo
perché stanotte è la casa che è tornata a noi,
pietra dopo pietra, nella polvere che ci ha risparmiati.[…]”
(p.15)
Ecco il testo della mia prefazione:
E chi la può dimenticare quella luna: turgida, gelida, indifferente, gonfia e materna luna di novembre. Si è celata nei recessi del cuore e nelle pieghe dell’anima, si è acquattata nei quotidiani oblii della vita e si riaffaccia ogni tanto: nei silenzi improvvisi e nelle parole non dette e si sublima nel lampo di una vecchia polaroid, che acceca il buio (per meno di un istante) e lo rende più buio e più fitto.
Angelo Curcio (che nel novembre del 1980 era appena quattordicenne) si specchiò in quella luna, con gli occhi avidi dell’adolescente inquieto e assetato (come sanno esserlo gli adolescenti), senza sapere in quale nascondiglio della sua coscienza (e della nostra) si sarebbe accucciata, a lampeggiare, folgorare ogni tanto, e a rendere spesso più buio e più incerto il cammino.
E’ una poesia scabra, a tratti ruvida quella di Curcio, senza cedimenti e senza ipocrisie nella quale si addensano suggestioni letterarie ed incubi di licantropi e terrori infantili e persino la nostalgia di una chiesa, il bisogno necessario di un rito, sia pure orfano di Dio.
Tracce di percorsi ed approdi, provvisori, dove la maledizione (“maledico le montagne e tutti i miei orizzonti”) moltiplica il quadro (Stabat mater dolorosa…) della madre “che vuole sapere […] per rispetto alla particola che ha accolto sulla lingua/ dove sia finito ogni santo stanotte:/tanti ne ha invocati quasi graffiandoseli sulla pelle […]”.
Echi che compongono e scompongono suggestioni letterarie, da Jacopone a Sanguineti (passando per Faber e Merini), attraverso riverberi, occasioni, letture, passioni, memorie che si fanno rimpianti, e ci fanno quasi colpevoli di essere vivi (segnando l’eterno ossimoro della vita, l’odi et amo, il male di vivere e la crudele ingiustizia della morte (che si porta via Samantha, e Angela, e migliaia di storie innocenti).
“[…] stasera siamo cani alla catena stretta/ e martiri in attesa di più definito supplizio/ […] a casa tornare non possiamo/ perché stanotte è la casa che è tornata a noi/ pietra dopo pietra, nella polvere che ci ha risparmiati”.
Chi vuole potrà, attraverso le pieghe della poesia, nel sacro dramma in sette quadri, disegnare una propria topografia di luoghi, immagini, potrà attraversare piazze, infilarsi in intrichi di vicoli, ricomporre una trama di appartenenze e generazioni che si affacciano da architetture misteriose e disvelano squarci imprevisti di vita. Chi vuole potrà incamminarsi lungo le note di “[…] una chitarra (un mandoloncello qualcuno dice)/ che con le corde di seta vibrava nell’arcata d’angolo […]”, o fissare lo sguardo sul cocchiere eternamente assopito sulle spade incantate dei Paladini, o imprecare sul pallone crocifisso ad un’inferriata, o interrogarsi con inerte stupore (perché “neanche il santo vecchiarello/ ha placato la belva carezzandole il manto[…]”).
Vigile ‘sentinella di periferia’, Angelo Curcio scava nella memoria, sua e nostra, l’inquieto ed indecifrabile cammino dell’ esistenza, riannoda, attraverso la consapevolezza della parola ed il controllo fonico-ritmico del verso, i lembi gualciti di quotidiane fatiche, ricompone le opere e i giorni di una terra violata (lo aveva già fatto, dalla terra nostra, risalendo dolorosamente le scoscese pareti dell’abisso, Alfredo Bonazzi).
Raffaele La Sala