Serena Borea scrive: «Assistiamo ad un appiattimento collettivo, naufragando in una crisi emotiva permanente che in una comunità piccola e bisognosa di coesione come la nostra acuisce ancora di più la gravità di questa ferita»
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo”.(Cesare Pavese)
È trascorso quasi un anno condizionato dal Covid e forse i tempi in essere e quelli a venire sono e saranno ancora più complessi di quelli trascorsi.
Per oltre 10 mesi, escludendo un’alquanto illusoria pausa estiva, siamo stati costretti a mettere in pausa la nostra vita a rallentare i frenetici ritmi quotidiani fiduciosi che dopo questa lunga sosta tutto sarebbe tornato come prima.
Gli eventi ad oggi ci dicono che il nostro concetto di normalità è ancora molto lontano e che la quotidianità che stiamo vivendo ci pone ancora molte restrizioni con le quali quotidianamente confrontarsi.
Eppure un barlume di positività c’è, le scuole riaprono, i musei riaprono la cultura sta facendo capolino di nuovo nella nostra quotidianità.
L’ultimo Dpcm ha consentito dal 18 gennaio per le zone “gialle” come la Campania la riapertura di musei e biblioteche e altri istituti della cultura (dal lunedì al venerdì, festivi esclusi). Un segnale di speranza e una ripresa di attività.
Anche ad Atripalda riaprono con molta calma i luoghi di cultura: la Dogana è aperta, la biblioteca invece è chiusa, così come il parco archeologico di Abellinum e lo Specus annesso alla chiesa Madre di Sant’Ippolisto.
Ma cosa si intende con precisione aprire un luogo della cultura?
Non basta soltanto girare la chiave in una serratura e lasciare aperta una porta. Per ri-aprire davvero alla cultura occorre studiare, investire e programmare nuove modalità di fruizione. Occorre ripensare ai valori incardinati nella nostra cultura e ripartire da lì. Organizzare incontri – appuntamenti ed eventi con modalità differenti da quelle a cui eravamo abituati.
Perché tutto questo non c’è? Perché non si ha più cura dei nostri luoghi, dei nostri ricordi delle nostre tradizioni?
La Dogana dei Grani, luogo tanto amato e tanto caro a noi atripaldesi, strategico per la sua posizione centrale, che tanto ben si presta ad essere ad accogliere eventi, mostre, allestimenti temporanei punto nevralgico dell’ipotetica agorà nostrana, è ormai un modellino, una scatola vuota tutta da ripensare.
Assistiamo dunque ad un appiattimento collettivo – il personale e il politico, si sarebbe detto un tempo, a braccetto con la crisi economica, stanno naufragando in una crisi emotiva permanente che in una comunità piccola e bisognosa di coesione come la nostra acuisce ancora di più la gravità di questa ferita.
Chi raccoglie la sfida? Chi decide di impegnarsi in prima persona per risollevare le sorti dei nostri luoghi? Amministrazione? Proloco? Chi risponde a questo grido di rinascita?
arch. Serena Borea
(funzionario MiBACT)
(Brano consigliato durante la lettura: massive attack teardrop)