Panorama

Quel virus che ci accompagna da tempo

Emergenza Covid-19, Idea Atripalda ricorda Sidney 2000, le Olimpiadi, l’oro del “Quattro di coppia”

Agostino Abbagnale, Alessio Sartori, Rossano Galtarossa e Simone Raineri al traguardo

Nel momento di massimo sforzo si potevano percepire con chiarezza assordante i colpi dei remi che battevano all’unisono. La tecnica e l’intensità degli sforzi miravano a quella linea immaginaria che segnava la gloria olimpica. Tutto era amplificato dall’eco di una voce cupa e profonda che risuonava sullo specchio d’acqua.  In quell’istante, e in tutti gli attimi precedenti e persino in quelli non ancora venuti, erano tutti uniti, legati ognuno alle sorti dell’altro. Nessuno escluso. Ogni esitazione personale poteva diventare una crepa nel meccanismo, ogni personalismo uno stridente avvilimento d’animo. Così, però, non è stato. La prua italiana fu la prima a varcare la linea e a guadagnarsi quegli agognati attimi di gioia che precedono pochi istanti di serafica tranquillità ed appagamento.  Dopo quel momento anche i dubbi, i dolori, gli insuccessi e le fatiche sembravano avere un senso.

Cosa sarebbe successo se, poco prima del traguardo, anche un solo atleta del quartetto azzurro avesse deciso che quello era il momento giusto per godersi l’imminente successo. Se avesse deciso di smettere di remare, adagiandosi sulla barca e sugli sforzi degli altri per pochi secondi?

Se avesse deciso di lasciarsi trasportare oltre, guardando i rivoli d’acqua che si formavano al proprio passaggio, avrebbe ottenuto un’impagabile esperienza personale. Forse gli altri si sarebbero scomposti, cercando di compensare l’apporto mancante, sarebbero saliti di colpi, perdendo il ritmo giusto. Addirittura, avremmo potuto perdere tutto. Poi, il rancore avrebbe preso il posto della soddisfazione senza misura, le accuse di individualismo il posto delle parole festanti. Un singolo attimo avrebbe mutato il loro e il nostro futuro. I nostri ricordi avrebbero assunto un significato diverso e le mille attese delle gare, gli allenamenti senza sosta, le rinunce, sarebbero stati semplicemente degli sforzi insensati. Non ci sarebbe più stato spazio per il successo e nessuna parola di conforto, rabbia o esasperazione avrebbe cambiato in meglio le cose.

Tutte queste ipotesi non sono in realtà lontane da come viviamo quotidianamente la nostra esperienza sociale.

Le società, la piccola o grande città in cui viviamo o semplicemente lavoriamo, la comunità in cui paghiamo le tasse, l’ospedale in cui ci rechiamo, la scuola in cui mandiamo i nostri figli o in cui siamo stati, persino il campetto di calcio, sono equiparabili ad una canoa. Da una parte ci sono le regole, che anche se in alcune circostanze possono sembrarci indecifrabili o incomprensibili, andrebbero rispettate per poter raggiungere il fine predisposto. Senza dubbi o indecisioni, come gli allenamenti che ci fanno bordeggiare il limite, che ci inducono alla disperazione per quanto rigidi possano apparire, ma che sono indispensabili per poter raggiungere senza rimorsi quella linea immaginaria che segna il nostro traguardo. Se qualcuno però si sottrarre a questo compito, prediligendo un momento – più o meno lungo, forse eterno – di soddisfazione personale, allora non farebbe altro che condurre l’equipaggio alla disfatta. Lo farebbe credendo che, in fin dei conti, le proprie esigenze individuali andrebbero soddisfatte al di là di ogni possibile prezzo sociale da pagare. Si badi, in alcune società questo prezzo è uno spauracchio senza sostegni e incapace di incutere timore.

In questo modo, innescherebbe quel sistema circolare autorigenerante in cui l’uno è contro l’altro, in cui chi può non paga le tasse, evade dai propri doveri e circumnavigando le leggi ottiene il successo a discapito degli altri.

Di quelli che non possono smettere di remare, per sussistenza o per semplice devozione. Questo è ciò che accade nella normalità e serialità quotidiana di una società. A pagarne il prezzo sono la qualità dei servizi e la credibilità e funzionalità delle istituzioni. Questo senso “civico capovolto” non fa altro che togliere benzina ad una macchina vecchia e tutt’altro che parca nei consumi. Una di quelle macchine che con tanto carburante coprono piccole distanze. Se ci troviamo ora a far i conti con una situazione eccezionale di crisi acuita, da una sanità a due velocità e da uno stato che fatica ad inseguire l’espansione esponenziale di un virus, è perché abbiamo dovuto scegliere se continuare ad immettere carburante per fare ancora pochi metri, senza preoccuparci delle nostre ristrettezze economiche, o smettere di rifornire continuamente quella macchina e spingerla di peso. Avremmo potuto optare per una terza via, quella delle riforme mirate, ma con questo senso civico capovolta sarebbe stata un’ardua impresa.

Idea Atripalda

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Comunicato Stampa