Attualità

«Salviamo la chiesa madre»

Appello dell’arch. Nello Conte per la salvaguardia della basilica di Sant’Ippolisto che mostra evidenti segni di degrado

La facciata della chiesa madre (nel riquadro l’arch. Nello Conte)

Le questioni relative al restauro architettonico sono argomenti utili a risvegliare quell’interesse per il patrimonio storico ed artistico che è tra le prime condizioni per la ripresa di una vita culturale e, se non altro, offrono l’opportunità di riflettere sulle contraddizioni tra la teoria e la prassi della disciplina. Prendiamo ad esempio il caso della Chiesa di Sant’Ippolisto Martire ad Atripalda, anche detta Chiesa Madre, la cui cripta è uno dei più importanti esempi di archeologia cristiana dell’Italia meridionale. Oggetto di stratificazioni architettoniche susseguitesi nei secoli e sottoposta ad un intervento di consolidamento statico-strutturale dopo il sisma del 1980, nell’ambito di un vasto restauro “creativo” scaduto in pura esibizione personalistica dell’autore (che pure riconosco come uno dei miei maestri, ma per altri meriti in ben altri campi), la Chiesa, già martirizzata dalla distruzione intenzionale del pavimento maiolicato (v. fig. 1) e, ancor più, dalla distruzione parziale dei gradini della scalinata del sagrato (rimossi per consentire il rilievo di alcune tombe “a cappuccina” ed in seguito, falliti i propositi di ricostituzione in anastilosi, ricostruiti filologicamente), fu sottoposta alla fine del secolo XX, al rifacimento complessivo delle “superfici di sacrificio” (intonaci esterni), più o meno degradate per effetto degli agenti atmosferici.

Figure 1 e 2

Con la stessa disinvoltura con cui un secolo e mezzo prima si era provveduto alla rimozione degli intonaci originari e al rifacimento delle superfici esterne, la vecchia ‘pelle’ fu sostituita da un’altra, come se intanto non fosse scorsa acqua sotto i ponti del restauro.

Individuato arbitrariamente uno stato cromatico (né originale, né presunto), si procedette al “restauro-cosmesi” secondo una formula priva d’implicazioni critiche, apprezzata per ragioni diverse da progettisti, direttori dei lavori, imprese, committenti, funzionari di controllo e promotori politici (la cui velleità questi ultimi ebbero ad imprimere nei  bassorilievi delle nuove porte bronzee, che relegarono quelle storiche ad “arredo urbano”– v. fig. 2). La cosmesi, estesa in facciata all’edicola del bugnato e al secondo ordine di lesene, oltre che al timpano (v. foto), sembra avesse la pretesa di “incamiciare” l’imbrignite grigia degli elementi architettonici, con la stessa prassi impiegata nel 1852 (in saeculum horribilis per il restauro), quando furono apposti gli stucchi sulle colonne romaniche della navata centrale, anch’esse in pietra grigia, proveniente probabilmente dalla cava di Altavilla Irpina (un’indagine mineralogica potrebbe rivelarcelo). L’ignimbrite campana in facies grigia, alias il tufo grigio campano, è una roccia di origine vulcanica simile al piperno, molto utilizzata in Campania, sia perché era disponibile in grosse quantità sul territorio, sia perché economica e facilmente lavorabile. Usata in modo strutturale durante il periodo Gotico (XII-XV secolo), essa cominciò ad essere impiegata con maggiore frequenza come pietra decorativa, per la realizzazione di elementi architettonici a “facciavista”, fino al XVI secolo (età a cui risale l’impianto rinascimentale della Chiesa Madre, concepito secondo le “Istructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae” mediante le quali la Controriforma dettò i canoni per l’ammo­dernamento delle chiese medievali). Pur essendo molto resistente all’usura, il tufo grigio campano risente delle sollecitazioni degli agenti atmosferici ed è soggetto a fenomeni alterativi di alveoliz­zazione, patinatura, attività biologica, scagliatura e disgregazione. Queste forme di alterazione si sviluppano in maniera diversa anche in funzione del tipo di esposizione del manufatto. Generalmente, l’esfoliazione, le efflorescenze e la disgregazione sono più frequenti in quei paramenti esposti a sud o ad est, mentre l’umidità e l’attività biologica si sviluppano per esposizioni a nord e ad ovest, ancor più in considerazione della porosità della pietra che è del 50-58%.

Dettaglio del timpano e delle lesene

La facciata della Chiesa di Sant’Ippolisto è esposta a sud-ovest e presenta per lo più fenomeni di esfoliazione, di corrosione, e di attività biologica sugli elementi decorativi, nonché i tipici fenomeni di umidità degli edifici antichi, dovuti ad infiltrazioni di vario tipo, ivi compresi quelli causati dalla scarsa manutenzione e dall’esigua capacità di spesa a sostegno degli interventi di risanamento dei paramenti murari, per quanto incredibile questo possa sembrare, dopo i contributi economici che lo Stato ha stanziato massicciamente a seguito del terremoto.

A meno di vent’anni dalla sua esecuzione, dunque, la nuova pelle è logora e la carcassa antica, per buona parte, è fradicia. A giudicare dai fatti, dell’intonaco del 1852, che pure è durato per più di un secolo, sembra non si conservino informazioni storiche, al pari di quello originario. Diagnosi e cura, in tema di superfici ‘povere’, sono tutt’altro che univoche e, come lasciano intendere alcune note affermazioni di studiosi che esortano alla massima prudenza, sarebbe stato utile riflettere che “ogni finitura ha una certa importanza, almeno come portatrice di informazioni storiche e tecnologiche ed è quindi degna di essere studiata prima di essere abbandonata alla distruzione, ove non sia intenzionalmente distrutta” (Carbonara et al.), se non altro per poter affrontare meglio il problema di cosa mettere al suo posto.

Stato della torre campanaria

Questo problema oggi si pone in tutta la sua urgenza, in quanto le superfici esterne della Chiesa Madre necessitano di un intervento di “rappezzo scientifico” e dal momento che l’istanza conservativa è stata immolata alla leggenda dello ‘strato di sacrificio’, contro i “ripristinatori che mitizzano il passato remoto” e gli “abbellitori” che “vivono in chiave mitica e anti-storica rispettivamente il presente e l’avvenire” sarebbe opportuno intervenire su sollecitazione di un’istanza di “verità” del documento materiale, che pure emerge al di sotto della pelle di serpente, per denunciare l’arbitrio delle mascherature e condannare l’indifferenza per quell’essenziale manutenzione o quel poco d’adattamento funzionale, indispensabili a garantire la conservazione dell’edificio. Posto che, alle condizioni date, sia possibile aderire ad un concetto di “autenticità relativa” del manufatto architettonico (De Fusco) è indispensabile che, in futuro, chi avrà il privilegio di occuparsi dell’immagine del Tempio Maggiore di Atripalda, si faccia interprete di una coscienza critico-conservativa che tenga conto del passato e non si erga a protagonista dell’istanza estetico-economica del proprio tempo storico.

Nello Conte

(Architetto, PhD. Cultore della materia in Composizione Architettonica e Urbana, Università di Salerno, Dipartimento di Ingegneria Civile – DiCiv-Unisa)

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