Una clamorosa scoperta scientifica. Si potrà identificare l’Alzheimer molti anni prima che la malattia si scateni
Negli ultimi anni, la ricerca sull’Alzheimer ha fatto significativi progressi, rivelando che i segnali predittivi della malattia possono manifestarsi addirittura 18 anni prima della diagnosi formale. Questo dato, emerso da uno studio condotto da un team di scienziati cinesi, offre nuove speranze per la diagnosi precoce e l’intervento terapeutico. Pubblicato sul prestigioso New England Journal of Medicine, lo studio ha seguito migliaia di partecipanti per un periodo di vent’anni, analizzando la progressione dei biomarcatori associati all’Alzheimer.
I primi segnali di allerta si possono identificare attraverso variazioni nelle concentrazioni di proteine specifiche, come le placche di beta amiloide e i grovigli di proteina tau, che si accumulano nel cervello. Queste alterazioni biochimiche sono spesso accompagnate da cambiamenti nel tessuto cerebrale e da un progressivo declino della funzione cognitiva. È importante notare che l’accumulo di beta amiloide, sebbene sia uno dei segni più riconosciuti dell’Alzheimer, non è presente in tutte le persone affette dalla malattia, il che suggerisce che esistono altre variabili in gioco.
Il percorso dei biomarcatori
Lo studio ha rivelato che il segnale più precoce dell’Alzheimer è l’aumento della proteina beta-amiloide 42 nel liquido cerebrospinale, già rilevabile 18 anni prima della diagnosi. Questa proteina, conosciuta per la sua capacità di aggregarsi e formare placche nel cervello, è un indicatore chiave della neurodegenerazione. A 14 anni dalla diagnosi, i ricercatori hanno osservato cambiamenti nel rapporto tra beta-amiloide 42 e beta-amiloide 40, un altro biomarcatore significativo.
Ecco un riepilogo dei principali segnali identificati nel corso degli anni:
- 18 anni prima della diagnosi: aumento della proteina beta-amiloide 42.
- 14 anni prima: cambiamenti nel rapporto tra beta-amiloide 42 e beta-amiloide 40.
- 11 anni prima: incremento della proteina tau 181 fosforilata.
- 10 anni prima: aumento complessivo della proteina tau.
- 9 anni prima: segni di danno neuronale attraverso la catena leggera del neurofilamento (NfL).
- 8 anni prima: atrofia dell’ippocampo.
- 6 anni prima: declino cognitivo evidente attraverso test standardizzati.
Un altro aspetto fondamentale emerso dallo studio è l’associazione tra il portare una variante genetica chiamata APOE4 e la probabilità di sviluppare l’Alzheimer. I ricercatori hanno riscontrato che nel gruppo dei soggetti che hanno sviluppato la malattia, circa il 37,2% portava questa variante, rispetto al 20,4% del gruppo di controllo. La variante APOE4 è nota per il suo ruolo nel metabolismo lipidico e nel trasporto delle lipoproteine nel cervello, ed è considerata un fattore di rischio significativo per lo sviluppo della malattia.
L’Alzheimer è una delle malattie neurodegenerative più diffuse e, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), già oggi colpisce oltre 40 milioni di persone in tutto il mondo, un numero destinato a triplicare entro il 2050. Con un invecchiamento della popolazione globale, è fondamentale investire nella ricerca e nel riconoscimento precoce dei segnali della malattia. I risultati di questo studio potrebbero avere un impatto significativo sulla salute pubblica, contribuendo a delineare politiche sanitarie più mirate e consapevoli.
La diagnosi precoce dell’Alzheimer non solo offre ai pazienti e alle loro famiglie la possibilità di pianificare il futuro, ma consente anche di accedere a trattamenti che potrebbero rallentare la progressione della malattia. Attualmente, i farmaci disponibili sono più efficaci quando somministrati nelle prime fasi della malattia, il che rende cruciale la scoperta di biomarcatori predittivi.