“Tremò” quel 23 novembre… 35 anni fa…


Il terremoto colpì violentemente e cambiò radicalmente il volto della città

Dicembre 1980. L’orologio della Dogana è fermo sulle ore 19 e 35. A pochi giorni dal sisma alcune tende militari in Piazza Umberto I offrono fragile riparo alle istituzioni pubbliche che provano a valutare l’entità del dramma (tratta la libro “Atripalda - Storie ed Immagini dal ’900).

Dicembre 1980. L’orologio della Dogana è fermo sulle ore 19 e 35. A pochi giorni dal sisma alcune tende militari in Piazza Umberto I offrono fragile riparo alle istituzioni pubbliche che provano a valutare l’entità del dramma (tratta la libro “Atripalda – Storie ed Immagini dal ’900).

Credo conservi qualche attualità il testo pubblicato in premessa alla mostra fotografica che curai per la Pro Loco di Atripalda nel 2005. La mostra volli intitolarla, citando dall’Inferno di Dante, “Tremò sì forte…”, e non per vezzo letterario. Mi pareva allora, e sono convinto adesso, che quelle parole dicessero la paura, lo sgomento, trasmettessero il senso di una devastante e fragilità. Mai il terremoto aveva colpito con tanta violenza, e mai il volto della città era così radicalmente mutato, anche per l’intervento, non sempre necessario, delle ruspe che scavarono il ventre medievale di Capo la Torre (in verità, già abbandonato al degrado dalla metà degli anni ’60, ma che almeno aveva conservato tracciati e profili, insieme alle evidenze monumentali della sua storia plurisecolare).

Sono passati 35 anni, eppure la memoria di quelle tragiche ore che sconvolsero l’Irpinia è tuttora viva. Anche ad Atripalda, dove quella sera non si contarono morti per la speciale protezione di San Sabino (ci ripetevamo per farci coraggio), che il miracolo lo aveva già fatto – ricordavano gli anziani – durante il terremoto del 1930, quando aveva tenuto in piedi la vecchia Chiesa Madre, dove si era rifugiata una folla inconsapevole o incurante del pericolo, e dove mia nonna mi aveva portato a pregare, nell’altro terremoto, quello del 1962. E fu veramente un miracolo che le case ‘ngapo la torre, sott’a rovana, ‘ngap’all’ortola, ‘ngopp’o palazzo, appiccicate l’una sull’altra e cadenti da secoli, fragile riparo di antiche povertà, e custodi gelose della più autentica e popolare identità cittadina, non si sbriciolassero sulla gente.

Forse non è questo il luogo per ‘rileggere’ la lunga e tormentata storia di questi anni. Le passioni non si sono del tutto sopite e qualche ferita ancora brucia, ma il tempo passa inesorabile e si posa sulle cose e queste foto ci appaiono già ‘lontane’, testimonianze sbiadite di fatti di un secolo fa, che i nostri giovani non hanno visto, e chi non ha visto non sempre può capire. Attraverso la scelta essenziale (ed inevitabilmente incompleta) delle immagini, tra le migliaia che in quei giorni e nei mesi successivi scattarono fotografi professionisti e semplici cittadini, non abbiamo voluto solo raccontare luoghi e macerie, ma anche i primi segnali di reazione, le prove di abnegazione, i successi e le sconfitte dei singoli e della collettività. L’eroismo semplice di padre Alfonso, che si fratturò qualche costola, quella sera, per impedirci di scappare dal convento di San Pasquale e ci salvò la vita; la prima affannosa ricognizione di amministratori ed impiegati comunali, a Capo la torre, a cercare con le torce tra le macerie, a gridare per farsi sentire da chi poteva aver bisogno di aiuto, mentre una polvere densa ti prendeva la gola, e ad organizzare i primi soccorsi, pochi minuti dopo il sisma; la farmacia ed il piccolo ospedale da campo nel piazzale della clinica S. Rita; la cura appassionata (e non sempre compresa) per la tutela del patrimonio storico ed artistico ed il recupero dell’archivio comunale (Vittorio Solimene, Galante Colucci, Sabino Tomasetti, la direttrice della Biblioteca Assunta Di Fiandra); le mense comuni e la solidarietà silenziosa, quella di padre Pasquale Caporale, di mons. Raffaele Aquino, degli scout e dell’azione cattolica, della Caritas di Senigallia e delle diocesi marchigiane, in prima linea a dare senso alla promiscuità dei campi di roulotte e di baracche. E poi la gestione dell’emergenza, tra scelte anche frettolose ed incertezze normative, in cui molti si affannavano, come potevano, ad ascoltare i bisogni e a dare risposte.

Ha cambiato volto Atripalda (ed ha cambiato pelle), dopo quel 23 novembre, come altre volte nella sua storia plurisecolare: mai forse in modo così rapido e profondo, accelerando processi di mutazione già in atto sin dai primi anni ’60. E’ cresciuta Atripalda, in questi anni, acquistando sembianze ed incertezze di un’area urbana moderna, ma meno raccolta, più distratta e per questo ancor più bisognosa di riappropriarsi di un’identità e di una storia.

Raffaele La Sala



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